La fiaba della psicheLuca Matteuzzi

Un giorno, una principessa vestita come una mattina di primavera, stava tornando nella sua verde villa, quando, all’imbocco del giardino, scrutò un ranocchio nascosto nell’erbaccia e d’istinto lo salutò: “Ciao Ranocchio”.

L’animale, confidando nel suo verde colorito, voleva confondersi nella natura, così la ignorò. D’altronde, voleva starsene per fatti suoi.

“Ranocchio…Ranocchio?” insistette lei cercandolo in mezzo alla sterpaglia. E scava che ti riscava, trovò una zampetta: “Eccoti!”.

La principessa lo sollevò portandoselo davanti i suoi occhi del color dell’alba.

“Perché non mi lasci in pace?”, chiese lui.

“Perché sono una principessa che aiuta sempre chi è in difficoltà!” enunciò lei col suo suadente sorriso.

“E io ti sembro in difficoltà?”, ribatté lui.

“Un po’”.

“E da cosa lo noti?”.

“Dal tuo triste sguardo”.

“Ma non vedi che me ne voglio star da solo?”.

“E allora perché sei venuto fino a qui?”.

“Perché volevo confondermi nel verde e perdermi in me”, spiegò l’anfibio d’un tratto incantato nel chiarore degli occhi di lei.

“E invece hai trovato me! Non sei contento?”.

“No, non lo sono mai”, rispose l’animale, “non più da quando…”.

“…da quando?”.

“Da quando niente!”.

“Infatti! Non importa! Ora siamo qui, insieme! Dimmi: cosa posso fare per farti tornare allegro?”.

“Nulla”.

“E dai, chiedimi qualsiasi cosa. Sono una principessa che porta felicità. La porterò anche a te!”.

“Beh, sai che…nessuno, ma proprio nessuno, vuole più baciarmi” disse il ranocchio smarrito sulle pupille di lei.

“Ok, io invece lo farò”.

“E perché dovresti, sono solo un brutto ranocchio, triste e solo”.

“Non sei un brutto ranocchio, e ora che ci sono io non sei nemmeno più solo. Sei solo triste. Ma adesso io ti darò un bacio e diventerai allegro e felice anche tu!”.

La principessa prese un bel respiro.

Si concentrò sul volto viscido e oleoso dell’animale.

Fissò incantata le sue escrescenze untuose.

La bava colante lungo il muso.

Il suo colorito nauseabondo.

Chiuse gli occhi.

E lo baciò.

Dopo qualche secondo si staccarono, e il sorriso della nobildonna illuminò il ranocchio, il giardino, il mondo.

Era stato il frammento di vita più intenso dell’esistenza dell’animale.

“Non è stato bello?”, chiese lei.

“Sì. Rifallo”, la invitò lui.

La principessa si passò la lingua tra le labbra inviscidite. E in quell’istante il ritmo cardiaco le accelerò, e le pupille le si dilatarono.

Lo ribaciò.

E ancora.

Poi lo rigirò.

E gli leccò la schiena.

Poi le zampe.

Il cranio.

Non trascurò nemmeno un centimetro della viscosa pelle del ranocchio. I suoi occhi del color dell’alba diventarono blu. Poi giallo. Poi rosso.

La principessa leccava. E il ranocchio godeva.

Poi lei si guardò attorno. Nel giardino apparvero arcobaleni, mulini, margherite e girasoli. E maialini paffuti gli volarono attorno come puttini. E castorini affettuosi le si arrampicarono sulle spalle sussurrandole dolci versi. E unicorni fluttuarono ad ali spiegate sopra le loro teste.

Ma d’un tratto…il grigio.

I castori si trasformarono in ratti emaciati. Gli unicorni divennero missili nel cielo.

La principessa li ignorò, poi si voltò ancora, e sulle spalle vide dei mostriciattoli dai denti affilati e iracondi.

Si rigirò nervosa e baciò ancora il ranocchio. E poi giù a leccarlo, scorrendo sulla pancia collosa, sul collo unto, sul naso poroso e sul volto godurioso. Risucchiò ogni rivolo di spuma che quel corpicino secerneva. E i colori intorno a lei tornarono vigorosi. E nelle orecchie di nuovo sonetti. I ratti sparivano mentre le pupille della nobile cangiavano. Così la principessa smise di leccare e gioì della meraviglia: il mondo era bello. Di più: era l’Eden. Come per il ranocchio, pieno d’amore. Un paradiso.

Ma all’improvviso…il grigio.

La principessa continuò a leccare e a rileccare il ranocchio, ma quel colore spento si impadronì del giardino. E i fiori divennero cocci di bottiglie, i castorini draghi famelici, i gattini tigri zombi.

“Ho paura”, confessò lei.

“Di che? È stupendo”, rispose lui estasiato mentre lei leccava ancora.

L’oscurità scese su di loro. Draghi, ratti e tigri attaccarono. La principessa scosse il ranocchio con la lingua che lambiva di nuovo il corpo dell’animale. Ma era inutile, non c’era più nulla.

“Perché!?”.

“Dammi tempo!”.

Ma lei necessitava di castorini e maialini. Così, presa dal panico, dall’astinenza, gli mozzicò una zampa.

E se la pappò in un sol boccone.

I draghi sembrarono tranquillizzarsi, ma poi l’offensiva ripartì. E la principessa azzannò un’altra zampa. E ancora. Fino a lasciarlo senza arti. Il ranocchio, nonostante tutto, pensò ancora alla felicità, mentre i draghi si rilassavano.

Ma fu solo un’illusione: qualche istante dopo la principessa aveva finito di papparsi anche il resto del corpo del ranocchio, lasciandogli solo la testa. A quel punto all’anfibio non restavano che i ricordi. Sembrava passato pochissimo tempo. Avrebbe voluto andarsene, ora, tornare al prima. Ma non poteva più muoversi.

Il passato era passato.

“Io volevo solo star per fatti miei, triste e brutto”, lamentò il Ranocchio prima che la principessa, nel panico, non gli ingollasse anche la testa.

Strappandogli guance.

Fronte.

Bocca.

E occhi.

Del ranocchio non restò nulla.

Nemmeno i ricordi.

La principessa si leccò le dita. Poi, dopo qualche tremolio, tornò gioiosa nel suo giardino. Il mattino si confondeva nei suoi occhi, la stagione nel suo vestito. Si stiracchiò, allungò il collo e scorse un cane poco lontano.

“Ciao Cane! Perché sei così triste?”

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